Pure el nosearo, che per la disseminazione si avvale di avidi e smemorati consumatori di nocciole, qualcosa ha dovuto patteggiare con Eolo. Niente nozze senza vento, tanto che la sua impollinazione è definita anemofila, amica del vento.
Gli amenti maschili sono già pronti a ottobre, poco più lunghi di un centimetro, ma si vede che sono impazienti e non appena il sole salirà un po’ su per guardar meglio il carnevale, loro si allungheranno distendendosi al vento capriccioso di febbraio. Per il rilascio dei preziosi granelli tuttavia dovranno attendere la schiusa delle carminie minuscole compagne, che portatrici di maggior giudizio aspettano, se possono evitano le gelide ventate tardive.
Ho sempre avuto ammirazione per le piante che sfidano l’inverno, mi raccontano di tempi di ghiaccio, di coraggiosi animali lanosi, di antiche alleanze fra uomini e fuochi per sconfiggere nevi così candide da evocare purezze implacabili. In quelle nevi il nocciolo c’era e ha lottato con gli altri.
Ma più interessante è che l’avellano sia pianta da rapeghe per natura: anzi, sembra fatto apposta. Quando serve un esempio per spiegare il significato di policormico – molti fusti – citarlo è quasi d’obbligo.
Le piante per sopravvivere fanno strani “ragionamenti”, el nosearo è una di loro: non ha scelto di competere in altezza come molte altre legnose, ma di diventare campione della ceppaia. Fa del rinnovo la sua straordinaria arma di sopravvivenza.
Questa peculiarità ha fatto sì che la corylacea con l’uomo abbia avuto a che fare parecchio. Coi suoi virgulti più giovani ha riempito faretre ancestrali, ha tenuto assieme palafitte, si è fatta intrecciare, ha sfamato. Una generosa, potremmo senz’altro definirla così, una di quelle piante che guardata dalla prospettiva mistica sembra un dono confezionato, da chi può tutto, a sostegno dell’umana sopravvivenza. “Ogni tanto el varda in basso” diceva mia nonna. Sempre massa poco, nonostante el nosearo: aggiungerei ora, ma questa è un’altra storia.
E anche senza scomodare divinità, santi e preistoria, retrocedendo solo di qualche decennio, el nosearo lo troviamo protagonista quotidiano della vita sugli scoscesi di questa Valle maledetta e tiranna. Maledetta di fatica e tiranna di affetti, chi vi è nato dentro non se ne libera tanto facilmente.
La fatica è una brutta bestia, fin che la vivi è solo fatica, ma dopo, piano piano sedimenta ricordi capaci di sublimare in emozioni che ti incatenano per sempre al passato. Le mie catene le conosco, sono aggrappate ai calcari della destra Brenta come radici di corniolo e mi parlano anche de noseari.
Fin che abbiamo avuto vigna e file di fagioli alti sono andato a rapeghe. I giovani polloni si recidevano col corteasso. Si colpivano dietro, nella parte tesa, dopo averli piegati un po’ in avanti e se il ferro era affilato, bastava un colpo.
Sull’attività di taglio è sempre il caso di spendere due parole, perché ha a che fare molto col concetto di lavoro a retroazione positiva, nel senso del rinforzo a carattere ludico. Per me costituisce un tratto antropologico di cui non si parla mai abbastanza, che invece spiega molto del perché l’uomo accetta la fatica tanto facilmente.
Tagliare e sramare ha una irrinunciabile componente ludica. Chi è arrivato ad usare con destrezza strumenti da taglio forestale, ronchetoni, accette ecc. sa quanto piacere dia assestare bene i colpi.
Quella del “piacere della funzione” è una vecchia storia che si perde nei meandri della filogenesi, riguarda anche gli animali, ma nel caso dei Sapiens si è da molto guadagnata il primato nelle strutture etologiche geneticamente fissate. Senza il piacere della funzione non ci saremmo salvati. E più la nostra sopravvivenza ha progressivamente dipeso da gesti complessi più è stato necessario acuire il piacere che proviene dallo svolgimento abile del gesto. Quasi tutti gli sport vivono di questo retaggio evolutivo, perché non è vero, come molti credono, che sia solo questione di furore competitivo. E non solo lo sport, ma anche la meno virtuosa dipendenza da videogiochi le dipende, senza di esso le case produttrici di joystick avrebbero fatto davvero poca strada.
Ma che non lo si usi più per cercare il contatto con il legno, la pietra e la terra, ci condanna alla sofferenza del distacco da quel mondo fisico che ci ha plasmato. Ci condanna a vivere in paesaggi sempre più lontani dalla ferace rigeneratrice antica armonia. Qualche volta bisogna tornare a usar el falsìn, sacrificare qualche pollone di nocciolo per combattere l’alienazione dal reale imposta da un metastatico virtuale.
In questi giorni sono andato su dove ancora pascolano le vacche, dovevo un giro a Liù, la mia setter gordon: era reclusa causa estro da più di un mese. Passeggiando fra i noccioli ho notato la grande produzione di frutti, sembra proprio si configuri una classica annata pasciona. Erano parecchi anni che non si vedeva. Un tempo si raccoglievano nocciole praticamente ogni anno, si trattava di una comune attività di sussistenza.

Per qualche ignoto motivo i noccioli negli ultimi decenni hanno invece quasi smesso di produrre. Trovo che anche questo, fra i molti altri, sia un segnale che ci indica come tutto stia mutando, ma non in modo positivo. A volte guardo il bosco e mi sembra abbia perso la sua forza vitale, che non sappia più sfamare. Non credo sia solo una questione di riscaldamento globale, ma di qualcosa ancora più complesso, di venefico che fiacca persino le capacità rigeneratrici.
E qui dirò senza mezzi termini quel che penso: credo che l’agricoltura che si avvale massicciamente della difesa chimica, operando in modo darwiniano, abbia contribuito a rinforzare l’azione parassitaria di molti patogeni a tal punto da renderli devastanti anche per le forti piante selvatiche. Se a tutto ciò si uniscono i non meno devastanti effetti della bioglobalizzazione, a causa della quale le piante si trovano continuamente di fronte nuovi aggressori – una specie di tempesta dopo l’altra, non fanno a tempo a contrastarne una che ne arriva un’altra – se ne deduce quanto il quadro generale sia tutt’altro che confortante e, per non andare fuori tema, non affronterò la questione animale, state certi però che lì troveremmo segnali, se non proprio esiti, ancora più inquietanti.
Ma torniamo alla leggerezza e qual miglior viatico della saggezza popolare per immergervisi, che a proposito di abbondanti nocciole ha un adagio ad hoc : “ano de nosee, ano de neve”, annata di nocciole, inverno nevoso. Sarà vero? Magari no, tuttavia credo che anche solo per mero calcolo probabilistico a una primavera mite e senza maligne perturbazioni, perciò foriera di abbondanti impollinazioni, possa, con qualche punto percentuale a favore, corrispondere l’antitesi di un inverno perturbato. Mah, forse che i nostri vecchi abbiano potuto godere di un periodo di maggior stabilità climatica, tanto da potersi permettere costanti a noi non più concesse? Non credo, tuttavia agli antenati va offerto almeno il beneficio dell’ascolto, soprattutto quando non costa nulla. Quindi mi vien da dire: “avanti nevaioli della domenica, preparate il culo per le seggiovie che quest’inverno si scia, su neve vera, paroea de nosearo!”
Ah… dimenticavo, in attesa che nevichi, non prestate orecchio a tutti gli adagi popolari, potrebbe venire a trovarvi anche questo: “el tempo l’è sta da maridàr par far quel ch’el vol!”