A fionda

A fionda

Pore isàrte cosa ve garae fato de mal poh”

La fionda è un’arma e come tutte le armi affascina per il suo potenziale di crudeltà, possiamo raccontarcene di balle, ma la verità è che siamo programmati non solo per sopportarlo, ma in certi casi anche per farcelo piacere. Con la fionda s’andava a tutto quello che si muoveva, ma le lucertole erano le preferite.

E nella Valle degli anni ‘60 ammazzare lucertole era solo un gioco. Per la testa di quei tiratori non balenava mai, neanche per un istante, che non fosse giusto, che per qualche motivo etico o semplicemente legislativo, non si dovesse fare.

Non fraintendete, sapere che la crudeltà rappresenta la cifra di certi istinti che compongono il nostro evoluto comportamentale, non significa approvarla, ma semplicemente prendere atto della sua esistenza e attraverso di essa, semmai, misurare la distanza che ci divide dalla possibilità di istaurare società in cui viga utile tolleranza intra e inter specifica. È difficile da digerire, ma dae fionde ai missili se non ci metti l’intelligenza in mezzo, non ci sono altri ostacoli.

D’altro canto qualche strategia per sopportarci a vicenda abbiamo sempre dovuto cercarla, e le lucertole delle masiere del dopoguerra, loro malgrado, costituivano l’alternativa a na sassà so a meòna. Il vertice in cui far convergere tutta quella erbacea aggressività, che ora si sfoga a coltellate minorenni in molte piazze italiane e non solo. Almeno va meglio per le lucertole, no: quelle ora le distruggiamo a distanza, senza che nessuno si senta responsabile.

Avevamo tutti genitori che avevano vissuto la guerra, molti con nonni che di guerre ne avevano patite due. E, sóra marcà, c’era da digerire un progresso che chiedeva una dolorosa recisione: tagliare le radici aggrappate agli orizzonti ariosi dei terrazzamenti, per consegnarsi alla catena di montaggio. Per molti non fu affatto facile, io qualcosa ne so.

Insomma non c’era né tempo né voglia di educare alle gentilezze. Se ammazzare lucertole distoglieva quei ragazzi dei trodi dalle allora molto popolari guerre fra bande da campanile, andava tutto bene e nessuno si preoccupava troppo per i poveri sauri.

Nessun ragazzo era privo del suo orno co a curamèa, era una questione di orgoglio, non solo di divertimento.

A fionda si otteneva da un grosso pollone di orniello. La costruzione, in un certo senso, consumava un rito vecchio almeno quanto la creazione degli elastici. Si andava insieme lungo le siepi a protezione dei sentieri e individuato il fusto giusto, si recideva col falsìn. Se stava larghi col tajo, tanto che quello era anche il momento buono per recitare uno dei tanti adagi popolari: “a scurtàr se fa sempre ora!” Infatti si doveva lasciare tutto lungo, i due internodi e anche le “braccia” della fionda. Una volta a casa si procedeva a pearla, togliere la scorza, poi le ramificazioni laterali si piegavano fino ad incrociarsi a livello dell’asse centrale e lì si bloccavano con un pezzo di fil di ferro. A quel punto il legno doveva seccare, perché solo seccando avrebbe mantenuto la forma costretta dalla piegatura. Si poteva seccare aspettando che l’orno si disidratasse naturalmente o forzare col forno de a fornea. Qualcuno lo faceva sol gas, ma ogni tanto el ghe ciapàva fogo. Na volta secco, si liberavano dal fil di ferro le braccia della fionda, si accorciavano all’altezza giusta, poi si recideva l’asse centrale un centimetro sopra al nodo che aveva dato vita alle branche laterali, che ora si presentavano meravigliosamente piegate a formare una larga e perfetta U. Salde e pronte a ricevere astichi e curamea.

Astichi, ovvero gli elastici li comperavamo da Moena, el scarparo de Valstagna o da Titee el cartolaio. Allora non ci pensavo, ma credo proprio che li tenessero solo per le fionde, perché non mi viene un altro utilizzo. Erano marroni e a sezione quadrata grossi e potenti, bastava aver forza per tenderli. Si univano alla fionda legandoli con congruo numero de giri de gavéta, el spago dei saeadi che nelle case non mancava mai, oppure con un elastico ricavato da un taglio ad anello di una camaradaria de quee rosse de bicicleta, anca lu girà tante volte, ch’el strensesse abbastanza.

E infine a curamea. A curamea, ꭍe fassie dir a curamea, ma cosa ꭍea. Etimologicamente sembra derivi da curame o cuoio che dir si voglia, quindi un pezzo di cuoio. In effetti era una ellisse di pelle di vacca conciata, che noi trovavamo ispezionando le sponde dea Brenta. Proprio così, la Brenta ne era piena e non solo de curamee, cosa non si trovava fra acqua e sassi in quei tempi, de tuto!

Dicevano venisse dal calzaturificio che sversava senza troppi scrupoli, come tutti, di tutto nelle dolci fresche acque della Brenta. E pensare che quell’opificio lo avevano battezzato con un altisonante “Medoacus”. Un fra le acque di nobile, antichissima, latinista memoria, peccato che della loro purezza non importasse un fico secco a nessuno.

Sulla parola curamea però ho qualcos’altro da dire.

A Valstagna curar significa togliere quello che non serve o semplicemente quello che va portato via. Curar a staea significa portar via il letame prodotto dai bovini, curar a saeata togliere le foglie dal cespo di lattuga che non è consigliato mangiare. I pezzi di cuoio che trovavamo arenati fra i sassi tondi del fiume, erano delle curaure, ovvero dei rifili inutilizzabili che i tajadori scartavano dalla sagomatura delle tomaie. Allora curamee è un nome con due significati? Etimologicamente no, ma emozionalmente sì, per me e curamee restano tochi de pèl scartai, curai appunto.

Quelli buoni erano quasi tutti triangoli rettangoli con l’ipotenusa curva. Li ritagliavamo, come detto, a ellisse, na fadiga improba con le forbici de a nona, tolte de scondon da a sésta de a roba par cùsar. Pai busi bisognava ingegnarse. Si facevano agli estremi, ai cosiddetti fuochi dell’ellisse, con un bossolo del 91. Si posava a curamea sol soco e il bossolo sul curame, dalla parte della bocca tagliente, poi una martellata decisa sul culo e il buco era fatto. Ai più piccoli si lasciava raccogliere il soldino di cuoio.

Di recente ho consultato l’oracolo luminoso per vedere se alla curamea fosse mai stato dato un nome, non ho trovato un nome secco, ma solo descrizioni tipo: contenitore di cuoio per il proiettile, quindi nessun nome. Curamea allora va benissimo, e mi vien da dire che eravamo più avanzati noi. Ho scoperto però che esiste un mercato di fionde quasi assurdo, ce ne sono di tutti i tipi persino col mirino laser, te le vendono col kit di proiettili, fionde da caccia, da tiro, di acciaio, titanio, legno.

Osservando le versioni vintage in legno però ho avuto un enorme sussulto di orgoglio, quelle presentate erano fatte con delle forcelle orribili tratte da specie assolutamente inadatte allo scopo. Guardando quelle tristi immagini sullo schermo ho avuto ancora maggior contezza della professionalità dei nostri manufatti di orniello, perfetti nelle forme e simmetrie, robusti, ma leggeri. Armi così ben forgiate che in mano a quei ragazzi affamati di abilità, diventavano non solo l’incubo delle lucertole, anca dei vasoti, botiglie… lampioni? Qualche volta… coi pi stupidi!

Quindi inutile che io ribadisca quanto l’orno si presti alla costruzione delle fionde come nessun altro legno al mondo, se qualcuno non ci crede non gli resta che provare, de orni ce ne sono a bizzeffe.

Mi resta ancora un ricordo.

La via dell’Andio che porta al fiume era luogo di caccia assidua, di là passavano in tanti, anche le donne che andavano a rasentàr a ìssia in Brenta. Transitavano piano coi manici dei secchi di zinco che segnavano la carne degli avambracci e le mani nodose e crepàe. Prima si preoccupavano di sé stesse: “ocio che me orbì con chei sacramenti de fionde!”. Poi, salve dae sassàe, ogni tanto qualcuna apostrofava gli assassini di sauri con: “Pore isàrte cosa ve garàe fato de mal po”, una femminile umanità che sapeva di saggezza istigata dai reumatismi.

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