“ Bocia…Se non te ghe dé in ponta
no teo alsarè mai!”
“Dame qua a mi vaeà, che te fo vedar!”
El peùsso ovvero el baseball de casa nostra. È un gioco antico, arrivato in Europa forse nel XV secolo. Come tutte le cose vecchie ha attraversato i secoli con la “globalizzazione” che viaggiava alla bella velocità dei gasteropodi. Il più del suo tempo l’ha vissuto libero nei cortili, per le strade e sulle piazze di tutta Italia, quando la comunicazione popolare ancora stagnava dentro alle usanze dei borghi senza grandi velleità di letterate codifiche, trasmessa di bocca in bocca. Comunicazione un po’ asfittica, ma anche capace di generare i più disparati e fantasiosi campanilismi verbali, uno sterminato insieme di modi di dire, epiteti, onomatopee, che addentrarvisi anche solo per curiosità diventa un viaggio di piacere.

Se n’è avvalso, ovviamente, anche il gioco della lippa che si è arricchito di così tante nominazioni da perderci il giorno solo a citarle.
Però io mi sono interrogato su “peusso”, perché è strano; anche in Valle. Infatti l’antico gioco, per le contrade del Canal di Brenta, viene perlopiù chiamato con altri nomi, come pìndol, ciri ecc. Peusso sembra esclusivo di Oliero, forse arriva a contra’ Londa, ma non oltre. Spulciando una lista di sinonimi legati alle regioni geografiche, ho scoperto che uno assomiglia a peùsso e viene dalla Campania, precisamente da Napoli con “mazza e piuzo”.
Questa scoperta mi suggerisce una congettura intrigante: al tempo della Grande Guerra chi abitava nei paesi a ridosso del fronte fu costretto al cosiddetto profugato. In pratica dei soggiorni forzosi verso zone più sicure, di vecchi, donne e bambini. I profughi furono spediti un po’ dappertutto, dal Piemonte alla Sicilia, anche in Campania. Ecco mi piace pensare che qualche ragazzino tornato da una di quelle tristi villeggiature, magari per darsi un po’ di arie, abbia usato il termine lì appreso e per gusto di esotico poi l’abbiano adottato tutti. Naturalmente addolcito dalla cantilena veneta che l’avrebbe fatto diventare presto peùsso.
L’idea mi piace anche perché la mia infanzia in fondo l’ho vissuta da scugnizzo, se con vita da scugnizzo si evoca la libertà di correre dappertutto a tutte le ore del giorno e un po’ anche di notte. Libertà di decidere a cosa giocare senza che nessuno ti debba caricare in macchina e portare come un pacco a fare quello che decidono gli altri. Libero perfino dal morale rinfaccio domestico circa i sacrifici sostenuti per garantire quella pomeridiana fetta di “animata prigione”.
Lo so cosa state pensando perché sono stato anch’io genitore costretto a ricorrere “all’animata prigione” e non solo ho pure gestito e organizzato attività sportiva giovanile per più di un decennio. Quindi non biasimo nessuno, so delle difficoltà che comporta avere figli piccoli in tempi come questi. Non è più un mondo per bambini, non li puoi mollar per strada a imparare a vivere, troppo pericoloso e se comunque t’azzardi come minimo ti incriminano per abbandono di minore. Sembra una guerra con una unica scappatoia: la totale rinuncia a esistere in libertà. E nei paesi cosiddetti civilizzati la guerra è già persa, ci hanno convinto a barattare la libertà e il coraggio con gli “agi tecnologici”. Allora non resta che surrogare la gioia dell’avventura con la tristezza delle organizzate attività pomeridiane che più ingabbiano più costano, e più costano più grande è l’illusione che portino felicità. E meno male che ci sono, altrimenti il destino, ai cellofanati bambini del terzo millennio, offrirebbe ben poco oltre la prospettiva della cifosi da cellulare, mollemente guadagnata con infinite sedute sul divano.
Invece dai… vuoi mettere na partìa a peùsso? Quelli sì che erano bei tempi, ci chiamavamo fuori fischiando sotto casa come le marmotte. Una volta in strada in un attimo si componevano le squadre, massa e peùsso ce l’avevano tutti, bastava andare in fondo alla via, dove non c’erano finestre coi véri e via si cominciava. Bisognava giocare in strada perché eravamo troppo bravi a colpire e i cortili fra le case non bastavano, c’era bisogno di spazi più lunghi. Ci sarebbe stato il “campo sportivo” un prato di nessuno sulla sponda dell’Oliero, era lungo dal ponte a dove le buone acque carsiche si fondono con la Brenta, ma quello era giusto per pecore e pallone, non per il peusso che vuole un piano duro dove poggiare.
Quindi in una valle stretta che sembra un cunicolo dove più di una strada non ci sta, o giochi in strada oppure.. giochi in strada. Vi starete già interrogando circa il tributo di sangue pagato alle quattro ruote da noi poveri “scugnizzi olieroti”. E invece no, non ci fu mai un investimento, né a causa del peusso, né per partitine a pallone. Certo scaltri lo eravamo, ma più di tutto non c’erano automobili. Bastava evitare la strada negli orari in cui gli operai andavano o venivano dalla fabbrica, per il resto era un meraviglioso parco giochi demotorizzato.
Ma che gioco è sto baseball de noaltri? Un bel gioco di strada complicato quel che serve per garantire abilità motorie, intellettive e relazionali, non inferiori a qualsiasi altro sport, come converrete se lo conoscete già o dopo che avrete letto la spiegazione delle regole in calce allo scritto.
Si gioca a squadre, e le squadre non hanno un numero di giocatori prefissati. A Oliero però non eravamo mai in tanti, un po’ perché il borgo è veramente minuscolo e più di tanti bambini non poteva produrre, ma anche a causa dell’incipiente denatalità già presente nel primo dopoguerra. Dall’immane disastro bellico e dittatoriale nacque un nuovo mondo a priorità invertite, più cura e meno figli, qualità invece che quantità. Magari con la speranza di non crescerli per vederseli mandare al massacro armati. Per dire, la mia classe conta meno di metà coscritti di quella di mio fratello che ha solo cinque anni in più.
Le nostre partite erano, tre contro tre al massimo quattro, di più non eravamo. Usavamo mazze pesanti che non potevano esser ricavate da manici di scopa, chi le usava era considerato sfigato, e poi non ce li davano i manici, vivevamo in un mondo dove non si buttava via niente, dove persino i chiodi ruseni raddrizzati erano ritenuti preziosi. I manici di scopa era più facile che li usassero per accarezzarci il groppone col classico accompagnamento di rito: “ dove situ stato fin desso disgrassià… a te a do mi el peusso ꭍo par a schena…”.

Ma c’era sempre l’orniello a salvare il nostro furore ludico. Per la mazza infatti erano due le caratteristiche cercate. Buon peso specifico ed elasticità. L’oleacea le incarna entrambe, anche da secca mantiene un peso elevato, ed è elastica, si diceva: “no a te ribate!” Carpino nero, faggio, corniolo, tiglio, sorbo, nessuno era considerato altrettanto performante, o perché troppo rigido o troppo leggero.
Per il peusso invece si cercava, oltre la compattezza, anche rigidità e resistenza all’usura ed era il carpino nero ad essere prediletto.
Eravamo liberi, è vero, ma non senza dover guadagnarcela quella libertà.
Casa mia giocare si diceva “far matèrie” una locuzione detta sempre con un che di negatività, come se far materie avesse in sé un che di peccato originale. Il tono con il quale si pronunciava svelava sempre una serpeggiante disapprovazione al ludere. Tutto quello che non produceva qualcosa di materiale che avesse in qualche modo a che fare con la sussistenza era superfluo. Si tollerava la virtualità scolare, ma non di pomeriggio “che un par de ore te pol ndar sapar, dopo te studi sta sera…” La disapprovazione al gioco andava dalla quasi indulgenza prescolare fino alla totale avversione adolescenziale. Dopo la quinta elementare non c’erano più scuse.
Il mondo di una volta era bello proprio per questa cosa qua, la netta disgiunzione generazionale. Gli adulti facevano gli adulti e disapprovavano, i ragazzi se ne infischiavano e giocavano lo stesso. A sei anni già lottavi per sfuggire al lavoro e concederti qualche momento di gioco. Il tempo con gli amici te lo dovevi guadagnare, dovevi importi, lottare, fuggire a volte anche nasconderti. Una scuola di sana ribellione, il miglior terreno di crescita della esistenziale autonomia personale.
Mi ricordo le calde serate estive, si giocava a “cuco”: nascondino. Il sudore delle corse generava na sete barbara, ma guai andare a casa a bere, sarebbe stato come consegnarsi al nemico senza l’onore delle armi. Io avrei pure avuto un rubinetto giù in cortile davanti alla stalla, che se non fosse stato quel traditore bastardo che era, mi avrebbe concesso l’idratazione senza cadere nelle sgrinfie genitoriali, sempre pronte a spedirti a letto. Ma quando lo aprivi trasmetteva, attraverso i tubi, un debolissimo fruscio fino in cucina, sperare che la gatta selvatica di mia madre non se ne accorgesse era pia illusione. Neanche il tempo di un sorso e si sarebbe sporta dalla finestra. Lei nel migliore dei casi, nell’altro mio padre! Comunque serata finita. Pure la fontana pubblica era stata disattivata. Su in Comune, si diceva che dicessero: “da romai a ghi tuti l’acqua in casa non a serve pì…” ora mi vien da dire che ogni epoca vanta il suo quid di stupidità, ma ndemo vanti!
Per le nostre gole arse non restava che la Brenta e allora giù di corsa pal trodol dei Massaporchi, sicuri nel buio pesto come selvatici inebriati di velocità, fra tabacco e spalliera de mericana, giù fino al greto a riempirci la pancia di acqua de Brenta. N’altra oretta di autonomia assicurata, prima dei fischi paterni che annunciavano la inderogabile resa!
Il gioco inizia col disegno del cerchio, si tracciava utilizzando come raggio proprio la mazza, che

generalmente misurava una quarantina di centimetri, la precisione nella misura della mazza, come capirete presto non è importante.
Fatto il cerchio sull’asfalto proprio in mezzo alla strada, si poneva al centro il peusso e si dava avvio alla contesa. La squadra che partiva in attacco schierava un suo giocatore battitore, i compagni intanto assistevano fuori dal gioco. La squadra avversaria si schierava tutta in difesa oltre una linea prestabilita, a qualche metro dal cerchio di inizio. Questo garantiva al battitore un minimo di spazio di manovra e al difensore di non prendere na mazzata sulle ginocchia.

Ma cosa vuol dire battere, è importante spiegarlo bene perché la bellezza del gioco è quasi tutta qui, nel senso che in questa azione risiede la maggior richiesta di abilità. Cominciamo dagli attrezzi, Il gioco si avvale di due legni, la mazza e la lippa, ovvero a massa e peùsso. La lippa, che nel paragone col baseball rappresenta la palla e l’altra è la mazza, quella non cambia. La lippa è un pezzo di legno cilindrico, più o meno del diametro di un manico di scopa, lungo una decina di centimetri forgiato a due lunghe punte contrapposte. In pratica un cilindro sulle cui basi si appoggiano due coni, un missile a doppia punta. La mazza anch’essa più o meno dello stesso diametro del peusso, come detto di una quarantina di centimetri.
L’abilità sta tutta nel riuscire a far schizzare in alto il peusso battendolo con la mazza in una delle due punte, una volta che rotea in aria con rapidità bisogna colpirlo come una palla da baseball cercando di scagliarlo più lontano possibile in direzione della squadra avversaria. Per questa operazione si hanno massimo tre tiri, con i quali bisogna uscire dallo spazio delimitato dalla linea prestabilita pena l’eliminazione del battitore. Era raro che qualcuno si facesse eliminare per incapacità di andare oltre la linea, meno raro era che uno della squadra avversaria agguantasse il peusso prima che toccasse terra, anche in quel caso il battitore era eliminato. Se il peusso non veniva intercettato al volo dal punto in cui veniva raccolto da terra un difensore aveva un’ultima possibilità di eliminazione dell’avversario battitore. Da quel punto lanciava el peusso verso il cerchio di inizio dove era stata posta la mazza direzionata verso il lanciatore, se riusciva a colpirla, guadagnava l’eliminazione dell’avversario. Se non la colpiva dal punto in cui si fermava el peusso, il battitore aveva tre tiri per allontanarlo il più possibile dal cerchio di inizio. Una volta esauriti i tre tiri entrava in gioco la stima. Il battitore chiedeva agli avversari di fare un’offerta, ovvero dare un numero di mazze corrispondente alla distanza fra cerchio di inizio e posizione del peusso.
Ad ogni eliminazione subentrava un altro giocatore della stessa squadra fino all’esaurimento dei componenti. Poi si eseguiva lo scambio di ruolo fra le squadre. La vittoria era decretata dalla somma dei punti acquisiti dalla singola squadra. Ma come si acquisivano i punti?
Esclusa l’eliminazione che non portava punti, ma solo l’indebolimento della squadra avversaria, i punti erano decretati dal numero di mazze accumulate nei rilanci dopo il fallimenti della squadra avversaria nei tentativi di eliminazione del battitore.
